IO MI SONO SCOCCIATA
Quando anni fa mi fu proposto di assumere un ruolo di coordinamento nell’area comunicazione dell’azienda dove al tempo lavoravo, nessuno dei superiori suggerì di rivedere il mio stipendio, né io proposi di ridiscuterlo.
Fu questo il primo elemento d’iniquità di genere che passò inosservato a tutti, me inclusa.
La mia forte motivazione unita a un’abitudine a svalorizzare il mio lavoro (abitudine cristallizzata da anni di lavoro sotto-remunerato) m’indussero ad accettare l’offerta senza alcuna esitazione.
Il caso volle che il mio insediamento coincidesse con l’assunzione nel settore marketing di un collega uomo, più giovane, sfrontato e, senza dubbio alcuno, con meno esperienza, titoli e competenze.
Tuttavia, nei mesi a seguire, mentre il mio approccio ‘partecipato’ alla gestione delle risorse umane generava un crescendo di malcontento nei superiori, in poco tempo il nuovo personaggio riusciva a ritagliarsi un ruolo di crescente rilievo e visibilità.
Infatti non ci volle molto prima che, ‘con sottile galanteria’, venissi invitata a lasciare il posto da me occupato al nuovo dipendente: uno yes-man che accettò di buon grado il nuovo incarico solo previa negoziazione di un riconoscimento economico adeguato. Riconoscimento che i superiori riconobbero senza controbattere, sebbene oggettivamente sbilanciato rispetto alle sue competenze e ai livelli salariali dei colleghi.
Prescindendo dalla profonda situazione d’iniquità dal punto di vista salariale che venne a crearsi, dal punto di vista dell’azienda la scelta di sostituirmi fu strategica. Come biasimare i superiori per aver preferito un più abile esecutore a una persona incline a far emergere criticità e a coinvolgere la ‘base’ (usando un’espressione cara ai superiori)? Idem per il collega in questione: non sarebbe onesto descrivere il suo comportamento come scorretto, né tantomeno la sua richiesta come illegittima.
Dove sta, quindi, l’anomalia di genere?
La scelta di offrirgli il ruolo di coordinatore dell’area non farebbe una piega se non fosse per la ‘sottile galanteria’, alias ‘subdola giustificazione sessista’, che i superiori chiamarono in causa per convincermi a farmi da parte. E questo, aspetto ancora più grave, senza che io me ne rendessi conto.
Invece di farmi legittimamente presente che era il mio stile di lavoro a non essere gradito – in quanto poco adatto alle rigidità strutturali del contenitore organizzativo che mi ospitava – i miei superiori chiamarono in causa la mia emotività – in più occasioni descritta come ‘tipicamente femminile’ – e la difficile situazione familiare che in quel particolare momento stavo vivendo. Situazione che, nonostante la gravità, mai m’impedì di raggiungere gli obiettivi di produzione attesi.
La prima domanda che sorge spontanea è: se al mio posto ci fosse stato un dipendente di sesso maschile, i superiori – tutti uomini pure loro – avrebbero utilizzato le stesse argomentazioni e si sarebbero espressi con le medesime modalità? Risposta negativa.
Ma veniamo a me.
Invece di indignarmi di fronte alla subdola argomentazione, accettai di buon grado di essere ridimensionata. Lo feci ricorrendo a un impianto interpretativo di supporto, che ripensandoci ora mi fa ribrezzo: mi auto-convinsi che i miei superiori mi avrebbero liberata da una serie di oneri organizzativi e gestionali per tutelarmi e valorizzarmi.
A distanza di anni, oggi penso di dover riconoscere – innanzi tutto a me stessa – che, di fronte alle indecenti argomentazioni dei superiori, non difesi la mia posizione (conquistata in virtù delle mie oggettive competenze professionalità e titoli) e non mi indignai perché, nel profondo, mi convinsi anch’io di essere inadeguata al ruolo. E questo non perché eccessivamente hippy o ‘inclusiva’ nella gestione – aspetto inconfutabile, questo, che cozzava con la rigidità strutturale della cultura aziendale del tempo. Ma perché emotiva, empatica e sensibile.
In altre parole, perché donna.
Tra le varie lezioni apprese grazie a questa vicenda, quella per me più importante è che non riconobbi, se non a distanza di anni, le argomentazioni addotte dai miei superiori come sessiste, perché vittima anch’io della medesima cultura, primitiva e denigrante. Cultura sessista che continua a far parte del sistema di dis-valori dell’azienda in questione da cui, nel frattempo, mi sono licenziata.
La lotta ad atteggiamenti sessisti deve partire da noi donne, nel nostro profondo, dove spesso si annidano i germi di una cultura sessista, che continua a regnare sovrana. Per liberarci dalla cultura dominante, portatrice d’iniquità, mortificazioni e ingiustizie, dobbiamo innanzi tutto diventare consapevoli e coscienti del nostro valore.
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