IO MI SONO SCOCCIATA
Io mi sono scocciata… mi sono scocciata molto tempo fa e non so come sarà, ora che scrivo, ripercorrere quel periodo.
La mia è una delle tante, tantissime storie di donne e lavoro. Donne che poi decidono di diventare mamme ma restano donne e tornano al lavoro.
Per raccontarla vorrei partire dalla fine, da quello che questa storia mi ha lasciato ed in che modo paradossalmente mi ha arricchita.
Ricordo i commenti di altre donne:
«Perché combatti? Fai quello che ti dicono di fare, guadagnati il tuo stipendio e a fine giornata, torna a casa dalla tua bambina. È lei la tua soddisfazione, non il lavoro».
Invece, se ho combattuto, è stato proprio per lei e proprio perché era una bambina, una piccola donna che avrebbe potuto in futuro vivere ciò che stava succedendo a me e alla quale avrei voluto dire «anche alla mamma è successo e non ha rinunciato».
Questa è la mia storia. La racconto soprattutto a lei ora che è cresciuta, perché era lei a darmi la forza di sopportare.
Dopo quasi 10 anni di lavoro nella stessa azienda, ero rimasta a casa per il periodo di maternità ed ero ormai pronta a rientrare, con quel senso di colpa che non mi avrebbe più lasciato.
Ero stata convocata dall’azienda per discutere i tempi del rientro e con tutta serenità mi presentai a quell’appuntamento. Fu una doccia fredda. Mi dissero già in quell’occasione che nel mio ufficio per me non c’era più posto. L’unica certezza era, dopo due mesi dal mio rientro, la sostituzione di una collega durante le 2 settimane di congedo matrimoniale in attesa di capire poi cosa ‘farmi fare’.
Sì, ‘farmi fare’.
La mia esperienza decennale, la mia professionalità, il mio curriculum erano diventati improvvisamente ‘qualcosa da farmi fare’ e, chissà per quale ragione, questo cambiamento era successo nel mio utero.
Fu una delle poche volte in cui rimasi letteralmente senza parole… ma non senza idee.
Pensai che erano stati poco furbi ad avvisarmi con così largo anticipo lasciandomi tutto il tempo di informarmi e consultarmi su come far valere i miei diritti.
Lo feci tramite alcuni sindacati che mi consigliarono subito di fare causa ma senza aver subìto ancora nessun danno non avrei ottenuto niente ed io non puntavo ad un risarcimento quanto piuttosto a non dover subire un danno.
Ne parlai con un amico avvocato che mi consigliò e mi seguì poi in tutta la mia battaglia… e che non finirò mai di ringraziare.
Dopo qualche mese da quell’incontro rientrai al lavoro. Alla mia scrivania sedeva un giovane ragazzo di 23 anni, maschio, assunto durante il mio periodo di maternità. Io avevo una nuova scrivania. Solo un computer e un telefono. Stop. Per mesi su quella scrivania non c’è stato altro.
Non una penna, un post-it, un appunto di una telefonata, un foglio con qualsiasi cosa da gestire… quello era il mio lavoro: entrare in ufficio, accendere il computer, collegarmi ad un indirizzo email al quale non scriveva nessuno, guardare un telefono che non suonava mai.
Sarebbe durato tutto un paio di mesi, poi per due settimane avrei avuto il mio ruolo di ‘tappabuchi’ per poi tornare al mio nulla. Fino a quando? Probabilmente fino a quando un giorno mi sarei stancata e me ne sarei andata nel silenzio…
Le cose andarono diversamente.
Decisi di combattere la mia battaglia ogni giorno. Ogni giorno mi presentavo nell’ufficio di qualche superiore a chiedere su quali attività avrei dovuto lavorare nella giornata.
Che fosse la mia responsabile, il Direttore al quale lei stessa doveva rispondere o la Direttrice del personale non faceva differenza. Questa era la mia routine quotidiana.
A volte mi dicevano «aspetta, poi vengo a farti vedere una cosa da fare…» e si presentavano dopo ore con 2 fogli da bucare e mettere in un archivio. Altre volte mi dirottavano su qualcun altro… ma la mia caparbietà dev’essere stata irritante perché un giorno uno di loro sbottò dicendomi: «ma che vuoi?! hai il tuo posto e il tuo stipendio, no?! non ti mettiamo mica una scopa nel xxxx per farti ramazzare gli uffici! e poi tu fai pure quelle due ore in meno ogni giorno!!» (facendo riferimento al permesso per allattamento).
Forse in questo modo pensava di spingermi a ringraziarli…
Con la stessa caparbietà misi tutto per iscritto. Ogni colloquio, incontro, scambio di parole era seguito da una mia verbalizzazione scritta e quando mi chiesero spiegazioni non ebbi alcun problema a dichiarare che ritenevo ingiusto il loro comportamento e che qualora non avessimo trovato un accordo, mi sarei rivolta ad un Giudice portando con me tutta la documentazione che stavo raccogliendo.
Mi sentivo nel giusto e non avevo problemi a dichiarare le mie intenzioni. Non volevo ‘colpirli’ con l’effetto sorpresa; volevo essere chiara e far capire che non potevano vincere contro il mio amor proprio e contro la mia determinazione a voler essere un buon esempio di donna per la mia bambina.
Intorno a me, in quel periodo, si creò il vuoto. In azienda eravamo qualche centinaio ma solo poche decine di persone mi rivolgevano la parola.
Alcuni mi fermavano nel corridoio o nel bagno per darmi segretamente il loro sostegno, raccontarmi la loro esperienza.
La solidarietà era così rara e preziosa in quel periodo che c’è ancora oggi, a distanza, un legame sottile ma intenso con chi in quel periodo semplicemente ‘c’è stato’.
Si concluse tutto con un loro passo falso.
All’ennesimo scritto da parte mia, mi risposero con una lettera che conteneva da una parte un impegno a reintegrarmi operativamente nella mia mansione e dall’altro un’ammissione con relativa motivazione (illegittima ovviamente) del loro atteggiamento.
Ricordo ancora le parole del mio amico avvocato che disse «ti hanno veramente scritto questo?!»… e mi consigliò di tornare alla mia scrivania, riprendere il mio ‘dolce’ far nulla e aspettare con la certezza che tutto si sarebbe risolto.
Dopo qualche anno e un’altra figlia, quel lavoro l’ho lasciato.
È stata la mia ultima esperienza di lavoro.
Oggi faccio la mamma a tempo pieno e continuo ad impegnarmi per essere un buon esempio di donna per le mie bambine.
Ripenso a questa esperienza con orgoglio e con la speranza di aver fatto almeno un piccolo passo affinché un giorno le mie bambine e tutte le donne possano avere esperienze professionali paritarie rispetto ai colleghi uomini, nel rispetto dei nostri diritti.
Condivido questi ricordi, con l’augurio che l’universo femminile possa ritrovare la solidarietà al suo interno.
Scrivici e mandaci la tua foto scocciata.
La tua storia verrà pubblicata qui sul sito e sui social!
Insieme possiamo fare la differenza contro il sessismo.